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oggi è un giorno diverso.
Sono passati già sei anni, era un giovedì anche allora, il giorno in cui papà ci lasciò. Aveva combattuto la buona battaglia, aveva terminato la sua corsa. Penso a quante cose sono successe in questi anni, a quante cose di cui parlare, in quante intravedere il suo silenzioso orgoglio per i nostri successi immediatamente temperato da un richiamo a migliorare in qualcosa. Quante arrabbiature si è risparmiato, quanti gol subiti dalla Roma nei quali ho sentito la sua voce dalla poltrona gridare “ma non si può!”. E’ un vuoto che non possiamo riempire, che rimane lì. Non possiamo dire che non ci manchi, ma possiamo dire che tutta la forza che c’è stata in questo strappo è nata da quei momenti che ancora oggi rendono quel vuoto non una grotta oscura ma un giardino rigoglioso. Vogliamo dire che in tutti quei sorrisi, quelle lacrime, quel bene, quelle parole che ci hanno messo in piedi, che hanno raddrizzato la nostra schiena, che ci hanno rialzato dalle batoste, che ci hanno indicato la strada, in quell’orgoglio di sentire ancora oggi la sua mano sulle nostre spalle lungo il nostro cammino, in tutto questo c’è una potenza, un Amore, che rende a ogni 22 maggio un senso di grazia meravigliosa (Amazing Grace), una nostra festa di Resurrezione familiare. Perché la morte non ha avuto l’ultima parola, e non l’avrà. A-Dio, papà.

“Cechov s’è caricato sulle spalle la mai nata democrazia russa. Il cammino di Cechov è il cammino di libertà della Russia. Mentre noi abbiamo imboccato un’altra strada. Provate a elencare i suoi personaggi. (…) Medici, ingegneri, avvocati, insegnanti, professori, proprietari terrieri, bottegai, industriali, istitutrici, lacchè, universitari, impiegati di ogni livello, venditori di bestiame, bigliettai, mezzane, sagrestani, arcipreti, contadini, operai, calzolai, pittori, orticoltori, zoologi, attori, locandieri, guardiacaccia, prostitute, pescatori, tenenti, sottufficiali, artisti, cuoche, scrittori, portinai, monache, soldati, levatrici, forzati di Sachalin… (…) Cechov ha portato nel nostro immaginario tutta la Russia nella sua imponenza, tutte le sue classi, tutti i ceti sociali e le età… Ma non solo! Ce li ha portati tutti, milioni e milioni, democraticamente, lo capite? Da autentico democratico russo! E come nessuno aveva fatto prima di lui, nemmeno Tolstoj, ha detto: siamo prima di tutto esseri umani, lo capite?, esseri umani, uomini, persone! Lo ha detto come nessuno aveva mai fatto prima. Ha detto che l’importante è che gli uomini siano prima di tutto uomini, e solo poi arcipreti, russi, bottegai, tatari, operai.

Lo capite? Non siamo buoni o cattivi perché siamo arcipreti o operai, tatari o ucraini. Siamo tutti uguali perché siamo tutti esseri umani. (…) Cechov è l’alfiere della bandiera più grande che abbia mai garrito sulla Russia nei mille anni della sua storia: l’alfiere della democrazia buona, della vera democrazia russa, lo capite?, della dignità dei russi, della libertà russa. Perché il nostro umanitarismo è sempre stato intollerante, crudele e settario. Da Awakum a Lenin umanitarismo e libertà sono stati partigiani, fanatici, e hanno sempre sacrificato l’uomo all’umanità astratta. (…)

Cechov ha detto (…) Partiamo dall’uomo, mostriamogli bontà e attenzioni chiunque egli sia, arciprete, contadino, industriale milionario, forzato di Sachalin, cameriere in un ristorante. Iniziamo rispettando, compatendo, amando l’uomo, altrimenti non ne verrà nulla. È questa, la democrazia, la democrazia mai nata del popolo russo. In mille anni i russi ne hanno viste di tutti i colori, hanno visto la grandezza e la megalomania. Una cosa non hanno mai visto, invece: un sistema democratico. Ed è proprio questa la differenza tra Cechov e il decadentismo. A un decadente lo Stato può dare una scoppola o un calcio nel sedere. Mentre di Cechov non capisce l’essenza, la profondità, e per questo lo tollera.”

Vita e destino, Libro I, cap. 66

«Quello che mi è successo è l’opposto di quello che sembra essere l’esperienza della maggior parte dei miei amici. Invece di rimpicciolire fino ad un puntino, Babbo Natale è divenuto sempre più grande nella mia vita fino a riempire la quasi totalità di essa. E’ successo in questo modo. Da bambino mi trovai di fronte ad un fenomeno che richiedeva una spiegazione. Avevo appeso alla sponda del mio letto una calza vuota, che al mattino si trasformò in una calza piena. Non avevo fatto nulla per produrre le cose che la riempivano. Non avevo lavorato per loro, né le avevo fatte o aiutato a farle. Non ero nemmeno stato buono – lungi da me!
E la spiegazione era che un certo essere che tutti chiamavano “Santa Claus” era benevolmente disposto verso di me… Ciò che credevamo era che una determinata agenzia benevola ci avesse davvero dato quei giocattoli per niente. E, come affermo, io ci credo ancora. Ho semplicemente esteso l’idea.
Allora chiedevo solo chi metteva i giocattoli nella calza, ora mi chiedo Chi mette la calza accanto al letto, e il letto nella stanza, e la stanza della casa, e la casa nel pianeta, e il grande pianeta nel vuoto.
Una volta mi limitavo a ringraziare Babbo Natale per pochi dollari e qualche biscotto.
Ora, lo ringrazio per le stelle e le facce in strada, e il vino e il grande mare.
Una volta pensavo fosse piacevole e sorprendente trovare un regalo così grande da entrare solo per metà nella calza.

Ora sono felice e stupito ogni mattina di trovare un regalo così grande che ci vogliono due calze per tenerlo, e poi buona parte ne rimane fuori; è il grande e assurdo regalo di me stesso, perché all’origine di esso io non posso offrire alcun suggerimento tranne che Babbo Natale me l’ha dato in un particolare fantastico momento di buona volontà».

Gilbert Keith Chesterton, da una lettera a The Tablet of London

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 1 – Il Partito Democratico è la nostra casa.

Una casa composta da persone e non da pacchetti di tessere. Perché continuiamo a impegnarci. 

Il Partito Democratico è la nostra comunità politica, il luogo, le storie di vita, i volti con cui abbiamo deciso di unire le forze per lasciare il mondo migliore di come lo abbiamo trovato.

È vero, abbiamo alle spalle storie di partiti, ideologie, promesse più o meno tradite, ma questo non significa affatto che davanti a noi non c’è alternativa ad un modello che ci rende individui soli, consumatori irregimentati, non significa che non ci siano più interessi di parte che da questo modello traggono profitto a danno di altri. La più grande vittoria di questo modello di sviluppo profondamente ingiusto è stata quella di abituarci a tutto, di convincerci del fatto che non ci fosse alternativa, toglierci la speranza di un mondo migliore perché più giusto, sostenibile e più socialmente responsabile, escludere la sinistra, i diritti, la democrazia, il lavoro, l’uguaglianza, l’emancipazione, la comunità, la cooperazione, la solidarietà, dal nostro tempo. Il ruolo del nostro Partito è quello di ridare forza a queste parole, facendo uscire il nostro Paese da questa triste e pericolosa fase della nostra storia.

Alcune volte sono stati commessi degli errori, a volte non siamo stati all’altezza, ma certamente il patrimonio di energie umane che è custodito nel nostro Partito – iscritti, dirigenti locali e nazionali, amministratori a tutti i livelli – costituiscono la risorsa principale su cui costruire il nostro progetto per sfidare la Destra. Questo “popolo” di volontari straordinariamente generoso, che vive il paese reale, è il nostro punto di partenza.

Una comunità di persone associate liberamente per realizzare degli obiettivi deve iniziare ad avere degli spazi di partecipazione. Ne abbiamo bisogno in particolar modo a Roma per due ordini di motivi: da un lato dobbiamo affrontare l’ondata di antipolitica che ha prodotto il risultato del25 febbraio e altissime percentuali di astensione dal voto alle amministrative;dall’altro per far uscire questa Città dalla crisi non è sufficiente il“governo dei migliori”. C’è bisogno che tutta la comunità cittadina si impegni a trovare le soluzioni per un mondo nuovo, che cambia e trasforma la vita anche quotidiana.

Coordinare il lavoro delle nostre realtà di base con quello degli amministratori, svolgere davvero il ruolo di cerniera tra società e istituzioni. Inoltre, siccome l’insieme di chi vorrebbe impegnarsi per la costruzione e il dibattito interno di un grande partito di centrosinistra è una grande rete fisica naturale,questa può essere sotto strutturata non solo in reti fisiche ma anche in un sistema di rete digitale che nel 2013 non può essere relegato a database di mobilitazione o, peggio, di misurazione di potere interno. Non c’è cambiamento senza difficoltà, e un partito cambia la città e il Paese quando riesce a coinvolgere i cittadini in grandi sfide e non al contrario quando si limita ad utilizzarli come serbatoio a cui attingere per confermare blocchi di potere locale. Al partito spetta il ruolo di proporre soluzioni, ma anche di costruire consenso attorno a sfide che nel breve periodo possono apparire impopolari. I circoli e la rete servono a tenere insieme proposte di cambiamento reale e cittadini.

2 – Il Ruolo del Pd a Roma 

Organizzare le nuove forze sociali che si muovono in città,far partecipare, rendere tutti o almeno il maggior numero possibile di persone in grado di costruirsi un futuro dignitoso, questo dovrebbe essere il compito del Partito Democratico di Roma. Per farlo dobbiamo valorizzare la nostra presenza anche fisica, rinnovare l’uso e le funzioni dei nostri circoli. Va mantenuto e potenziato il circuito delle Feste dell’unità di Roma sia quella centrale che quelle dei circoli e dei Municipi, perché sono momenti di finanziamento e di confronto con  i cittadini sempre più indispensabili. Le nuove disposizioni legislative in merito al finanziamento pubblico imporranno un estremo rigore nella ricerca e amministrazione delle risorse economiche del partito (tesseramento, contributi degli eletti ai vari livelli) e nella decisiva attività di fundraising. L’autonomia del Partito Democratico di Roma andrà intesa prima di tutto come capacità di reperire autonomamente le risorse necessarie a mantenere in vita il partito stesso.

Non dobbiamo dimenticare che per abitanti, per numero di circoli e per iscritti, il Partito democratico di Roma è paragonabile a diversi partiti nazionali europei. La vittoria alle amministrative apre una fase del tutto nuova, perché in questi anni siamo stati la principale forza politica in opposizione all’amministrazione comunale, ora siamo la prima forza a sostegno della Giunta. Sarà compito del nuovo gruppo dirigente guidare il Partito Democratico in questo nuovo contesto, per certi versi più difficile ma certamente con molte opportunità in più per tutto il Partito per trasformare infatti le proprie proposte.

La forza del Partito Democratico è la sua capacità di fare rete, la potenzialità di radicarsi tra le persone. Abbiamo tanti circoli territoriali ma anche aziendali e tematici che ogni giorno affrontano i problemi del lavoro e del governo della nostra città. Il ruolo del Pd è a fianco del Sindaco e degli Amministratori da protagonista, portatore di idee e di una discussione che non deve mai esaurirsi, nascendo dalle assemblee e dai direttivi di circolo e realizzandosi nell’azione concreta dei gruppi municipali, del gruppo comunale e della giunta.

Noi rifiutiamo l’idea che il partito sia composto da “frazioni” – gli Iscritti – gli Eletti – i Dirigenti etc. etc. – che sembrano una rete di partiti diversi in un unico contenitore. Pensiamo ad un Partito di Romani cui l’elaborazione e la produzione di proposte e di idee viaggino dalla base ai vertici amministrativi e politici e viceversa. Pensiamo ad un partito che coinvolga i suoi iscritti sfruttandone a pieno le potenzialità e le competenze. Deve essere un continuo propulsore di un’idea di città, e per farlo deve darsi una forma e una struttura partecipativa che renda chi gli iscritti e i circoli orgogliosi protagonisti del cambiamento della città. Cambiare la città richiede anche l’ambizione di costruire consenso anche attorno a decisioni impopolari. E l’unico modo per non farlo in modo arrogante, ma veramente democratico e partecipativo, è avere un partito forte che usi forme di partecipazione inclusive. Il Partito democratico si deve dotare di un sistema di deliberazione e discussione interna fondato su assemblee e strumenti di rappresentanza interna che si incontrino regolarmente ad ogni livello perché ogni circolo possa vedere nell’azione politica del partito e dei gruppo il riflesso di una dibattito nato nelle proprie mura.

Il PD deve anche confermare la collocazione dalla parte dei lavoratori ed a tutela dei servizi pubblici universali, come ha fatto nella battaglia per Acea. Oltre alla centralità del lavoro e dei lavoratori, non possiamo dimenticare che Roma è la capitale dell’accoglienza. Dai suoi più antichi cittadini, la Comunità Ebraica, fino alla Moschea più grande d’Europa,siamo tutti arrivati qui, e siamo tutti stati accolti a Roma. Il Pd di Roma dovrà impegnarsi con serietà, concretezza e spirito costruttivo sul fronte del dialogo, della solidarietà e dei diritti civili, seguendo anche qui il modello delle grandi capitali europee. Non è più tollerabile che nel pieno cuore della nostra città si assista ad aggressioni  omofobe, il Partito Democratico ha il dovere non solo di mettere in campo tutte le sue energie per combattere queste violenze, ma anche il compito di lavorare per abbattere queste discriminazioni nel tessuto profondo della città. Le leggi non bastano anche su questo un partito forte può aiutarci a radicare il cambiamento nella vita delle persone. Tenendo tutti insieme, con il pluralismo necessario, ma senza divisioni “tattiche”, il PD può svolgere appieno il ruolo di forza riformista capace di disegnare il futuro di Roma.

3 – Riportiamo Roma tra le grandi città europee.

La città che abbiamo strappato dalle mani di Alemanno è una città stanca, sfiduciata, conflittuale. I suoi tessuti sociali sono sempre più sconnessi e sempre più assistiamo a episodi che evidenziano come il conflitto non avvenga tra disagio e privilegio, tra troppo e troppo poco, ma tra parti egualmente sofferenti (gli utenti contro gli operatori, i pazienti contro gli infermieri, i viaggiatori contro gli autisti). La reazione alla crisi è stata gestita goffamente dalle Giunte della Destra, scelte sbagliate, se non addirittura colpevoli, hanno aumentato il disagio in nome di qualche interesse di parte. Roma è una città in cui vivere, studiare e lavorare è stato sempre meno facile.

Tra le scuole, le tre università pubbliche e le tante altre realtà private, orbitano centinaia di migliaia di studenti che sanno che Roma è solo una tappa, che dovranno realizzarsi altrove, che manca quella prospettiva di comunità cittadina nella quale si può prendere il proprio posto e dare il proprio contributo, una galassia di precari dello studio e del lavoro i cui confini si estendono per centinaia di chilometri.

Quando parliamo di lavoro a Roma, parliamo anche di pendolari che arrivano non solo dalla provincia, ma da altre regioni, spesso affrontando quotidianamente sacrifici inimmaginabili. Parliamo di giovani che contro lo spirito del tempo hanno deciso di dedicarsi all’insegnamento, hanno vinto concorsi, ma rimangono fuori. Quando parliamo di Atac, di Acea, di Alitalia,  parliamo di decine di migliaia di lavoratori che soffrono condizioni sempre peggiori a causa di scelte sbagliate di vertici che non hanno problemi a riposizionarsi e salvarsi. Parliamo della situazione dei lavoratori degli enti di ricerca, il cui grido riempie sempre più spesso le nostre piazze e ci allarma perché da lì passano le speranze di ripresa del Paese. E parliamo di chi opera nello spettacolo e nella cultura, nel design e nel digitale, nel turismo e nel commercio, di chi lotta per continuare a lavorare e a far lavorare, e vorrebbe sentirsi parte di un sistema virtuoso anziché parte di uno scambio continuo di accuse. Lavoro a Roma sono anche tanti nuovi professionisti, una generazione che, non senza affrontare difficoltà, ha studiato e scelto di esercitare la libera professione nella sua città.  La Destra con le sue scelte corporative, opache e inefficaci ha creato le condizioni perché a Roma l’effetto della crisi fosse sentito in misura anche maggiore che nel resto del Paese. E noi vediamo chiaramente il pericolo che la crisi finisca per fomentare ulteriormente le spinte “egoistiche” e la logica del “si salvi chi può.”

Ma la nostra Città ci ha anche riconfermato un capitale di fiducia non banale. Nello stesso giorno in cui vaste fette delle periferie romane votavano per il Movimento 5 Stelle, il giorno delle elezioni politiche,votavano anche per la nostra coalizione e per il Partito Democratico alle regionali. Alle elezioni comunali, poi, anche se con un preoccupante fenomeno di astensionismo di massa che non ci lascia indifferenti, la proposta di cambiamento del centrosinistra ha vinto largamente e ovunque, al centro come in periferia, al Campidoglio come nei Consigli Municipali. Dobbiamo renderci conto che per la nostra Città rappresentiamo l’unica seria speranza per uscire dignitosamente da questa situazione, non possiamo sprecare con divisioni fittizie, protagonismi o strappi questo consenso che abbiamo riconquistato. Perché oltre noi, c’è solo il populismo e la demagogia che la Destra ha già dimostrato e comprovato e che il movimento di Grillo conferma giorno per giorno.

Siamo all’inizio di una nuova amministrazione che vuole imprimere una visione diversa della città, che vuole riportare Roma dove merita di stare, tra le grandi capitali europee, ma non realizzeremo una nuova città senza mettere a sistema le tante energie che si impegnano tra di noi, senza un partito forte come dovrà uscire il Pd da questo congresso.

“Politico o Cristiano?”, di Roberta Vinerba, ha il primo grande pregio di affrontare sin dal titolo i tre grandi rischi che mai come oggi sbarrano la strada dei giovani cristiani che si affacciano all’impegno politico. E’ certo ancor più meritorio il proposito dell’autrice se inserito nel contesto del dibattito pubblico italiano, sbattuto tra le onde di un’opinione pubblica sempre più emotiva e delegittimato dalla crisi di fiducia nella rappresentanza politica e nella funzione dei corpi intermedi.

 

I RISCHI E I PREGIUDIZI

Il primo dei tre rischi è il distacco dal mondo, che si compie nel rifiuto pregiudiziale dell’impegno politico tout court, nella paura della contaminazione, che però per il cristiano può assumere il contorno di un rifiuto dell’incarnazione tale da escludere il mondo reale più bruscamente delle porte di un monastero” come sottolineava Chesterton (G. K. Chesterton, Eretici, 1905, p.124 ed. Piemme 1998), dimostrando che prima della conversione aveva scarsa conoscenza del monachesimo. Il secondo rischio è quello che Jean-Marie Domenach chiamava il purismo fallimentare, l’impegno in politica, l’iscrizione ad un partito e la militanza assidua, ma con l’interpretazione della politica quale il campo dell’intransigenza morale e del fallimento purificatore. E’ l’atteggiamento tipico di chi assume costantemente posizioni minoritarie per poter mantenere pura e incontaminata la propria posizione rispetto a qualunque responsabilità sulle decisioni e il compromesso. Vi è poi il terzo rischio, che è l’opposto, che sempre il Domenach chiamava “il machiavellismo dei furfanti”. Ed è l’atteggiamento di chi partendo dall’innegabile principio per il quale l’esercizio della politica passa attraverso la presa del potere è giunto a fare del potere e del suo mantenimento attraverso il governo degli equilibri, un fine a sé stante. E’ ancora Domenach ad avvertirci dello stretto legame tra i due ultimi rischi: “Per la verità esiste un profondo legame tra il moralismo sognatore e l’empirismo soddisfatto. L’impotenza dei puri autorizza il machiavellismo dei furfanti”. (Jean-Marie Domenach, Per un’etica dell’impegno, in La vita politica dei cristiani, AA. VV. ed. AVE, 1968, p. 16).

Roberta Vinerba si propone di accompagnare il giovane lettore attraverso quella stretta via tra il distacco e il disincanto, tra l’intransigenza e il compromesso, e lo fa prendendolo per mano, scegliendo uno stile fluente e un linguaggio diretto, affabile, adatto alla generazione alla quale si rivolge.

Senza dare nulla per scontato l’autrice muove i primi passi sgombrando il campo dai tre principali pregiudizi che la parola “politica” può oggi richiamare: “la politica è una cosa pericolosa”, “la politica è una cosa sporca”, la politica è una cosa per vecchi tromboni”. Una rapida ed efficace ricostruzione del quadro storico degli ultimi quarant’anni offre una spiegazione sull’origine di tali pregiudizi fino a giungere alla riflessione secondo cui “essere eredi di un Paese la cui classe politica fu azzerata dal codice penale è un aggravante di non poco conto per un argomento, quello del potere politico, che già di per sé è gravato dal sospetto” (p. 21) ma dobbiamo sforzarci di andare oltre il vecchio assunto per cui esiste una società civile diversa e migliore della società politica “trovo estremamente stupido e offensivo questo modo di descrivere l’impegno politico o sociale che sia. Stupido perché lascia intendere  che le realtà relazionali (…) siano una sottospecie di cloaca nella quale, quasi per sbaglio, egli si trova a doversela cavare. Offensivo perché lascia intendere che coloro che si spendono per un servizio all’uomo, in generosa e limpida coscienza, vengano intaccati nella loro purezza da questa «cloaca» e ne escano comunque danneggiati, moralmente deturpati”. (p.22).

 

PER IL GIOVANE: UN PERCORSO UMANO E CRISTIANO

Un pregio del testo è che, pur partendo dalla semplicità di ragionamento resa necessaria dallo scopo, si addentra gradualmente nel fitto bosco delle complessità bibliche e morali che il giovane cristiano seriamente deciso a impegnarsi troverà sul suo percorso, e lo fa dotando il lettore di una mappa piena di riferimenti: brani della Sacra Scrittura, concetti e categorie del pensiero teologico, Santi e Testimoni di ogni tempo, che aiutano a considerare superate discussioni tanto attuali quanto antiche. Si affronta così il tema caldo della necessità del leader carismatico “solo un’antropologia che non dimentica la natura ferita dell’uomo può erigere un baluardo contro i totalitarismi e i messianismi terrestri e contro tutti i fabbricatori di illusioni che si presentano come giustizieri duri e puri, finalmente puliti rispetto agli altri, quelli sì, capaci di ogni nefandezza”. (p. 33). Qui si innesta la critica all’individualismo moderno e alle sue tentazioni superomistiche, inganno che distrae dalla realtà di una comunità che discerne, di un “noi” in cerca di un “dove andiamo?” fondato sull’immedesimazione nell’altro. “Al fondo della questione c’è la scelta tra un’etica individualista e un’etica solidale, ovvero la necessità di dare un significato alla presenza dell’altro per me” (p.48). Alla lettura delle dinamiche sociali che vuole i diritti dell’uomo privatizzati e individuali, “realtà solo per coloro i quali hanno la forza economica, morale, politica, per farli valere” (p.51) e che fa della società una somma di conflitti individuali e nazionali si contrappone il modello teologico della società – e delle relazioni al suo interno – del personalismo relazionale della Trinità, perfezione dell’identità personale e della relazionalità interpersonale. La socialità umana ha la struttura di una famiglia, sostiene l’autrice, come nelle belle pagine di Chesterton (Eretici, 1905, cap. XV), ed è qui che si rivela Dio pur instaurando una relazione personale ma scegliendo la dimensione del popolo per indicare la via della salvezza, vicino a ogni uomo ma che prende decisamente le parti dei poveri dei quali si costituisce difensore(p.68). E l’uomo, testimone della croce, non può che riconoscere nella logica del dono di sé la risposta santa al Dio Santo (…) vocazione all’amore, tensione verso un Assoluto dal quale l’uomo si sente chiamato e attratto e dal quale anche riconosce di ricevere il senso fondante della propria esistenza.(p.62) Tutto è politico e tutto è pubblico, a motivo della reale solidarietà degli esseri umani tra loro, e in questo senso per i cristiani essere attivamente presenti sia nel pre-politico sia nell’azione di governo, acquista carattere religioso, diventa vera e propria obbedienza al comandamento dell’amore, è “svolgere il piano di Dio nella storia dei popoli” secondo la massima di Giorgio La Pira.

 

IL CAMPO D’AZIONE DEL CRISTIANO

Il saggio giunge a descrivere il campo d’azione del cristiano che voglia impegnarsi politicamente, partendo dalla Chiesa, che offre “il suo contributo specifico per una corretta costruzione di un ordine umano rispettoso della dignità della persona. La stessa struttura democratica – prosegue Roberta Vinerba – sarebbe decisamente fragile se non avesse al suo centro, come suo principio e fine, una corretta concezione di uomo(…) tutto si gioca su questo fondamento perché le scelte politiche sono a servizio di una determinata visione di uomo”(p.124). L’autrice sostiene che vi siano una varietà di antropologie che si offrono nel mercato dell’agire politico contemporaneo, non fatichiamo a intuirle quanto invece fatichiamo a trovarle rappresentate nell’agone politico, sempre meno nobilitato dalla presenza di riconoscibili visioni del mondo. Il giovane cristiano impegnato in politica ha la responsabilità di nutrire la sua formazione con maggiore dedizione, soprattutto negli aspetti nei quali la sua testimonianza sarà chiamata in causa per prima. “E’ urgente da credenti elaborare un concetto di sana laicità che tenga conto di Dio e (…) al contempo, della legittima autonomia delle realtà terrene. (…) Dio creando pone la creatura come altra da sé. (…) La creazione è la prima dichiarazione di laicità: Dio mette l’uomo in mano al proprio consiglio”(p.140). Nella Nuova Alleanza si instaura la distinzione tra Cesare e Dio, che non è separazione o esclusione, ma distinzione che trova la sua congiunzione nei valori che esprimono la dignità della persona umana, verità morali che riguardano la persona come tale, l’uomo in società, il rispetto per la vita, i diritti fondamentali, la giustizia.  Verità che non sono confessionali perché sono radicate nell’essere umano, preesistono alla religione,  appartengono alla legge morale naturale.

Dal dovere dell’impegno passando per quello della formazione della propria competenza, il testo accompagna il lettore alla conclusione che l’impegno politico non è abdicabile ma è prerogativa dei laici, e lo fa illustrando i passaggi illuminanti del Concilio Vaticano II nella Gaudium et spes, di Paolo VI nella Octogesima adveniens e di Giovanni Paolo II nella Christifideles laici, sul ruolo e la modalità di azione cui è richiamato il cristiano. Centrale è il richiamo all’ammonimento di Maritain a non scadere nella frequente pratica dello sdoppiamento in una vita divisa tra una metà cristiana ed una che fa astrazione del cristianesimo quando è concentrata sulle cose del mondo perché “il bene comune della civiltà domanda da sé di riferirsi al bene comune della vita eterna, che è Dio stesso”(p.187).

 

UN MESSAGGIO DI SPERANZA

L’ultima parte del libro è un appello appassionato all’impegno a spendere la vita, come ripeteva p. Luis Espinal, senza risparmiarsi “ho scoperto che i santi sono di terra e di cielo, appassionati della vita, che l’hanno vissuta a pieni polmoni”(p.234). Un appello a impegnarsi nel costruire comunità, e nel testimoniare l’ardore per l’impegno politico, perché non si esaurisca nella spiritualità, ma la civiltà dell’amore si edifichi nell’incontro con l’altro, nella persona. E nelle persone di alcuni testimoni da Thomas More a Julius Nyerere, Roberta Vinerba offre l’esempio finale di quella costruzione il cui compito affida nelle ultime pagine alle nuove generazioni.

“Politico o cristiano?” è molto più che un saggio, è una testimonianza viva e insieme un ottimo manuale, di quelli che educatori ed animatori delle realtà ecclesiali dovrebbero proporre ai propri educandi in letture cicliche. Trae in salvo dalla superficialità del nostro tempo, dall’emotività esplosa nel tempo dei social network, dalle risposte semplici ed ingannevoli, dal nichilismo e dalle tentazioni di un senso comune orientato all’individualismo che rende l’uomo un consumatore intento a nascondere la propria solitudine. Un testo che può riaccendere la nostalgia della speranza e l’entusiasmo della generazione che dovrà rialzarsi dalla crisi.

 

(da Rivista di Teologia Morale,  n.179, luglio-settembre 2013)

oggi, 70 anni fa, nonno Vittorio veniva catturato dai nazisti, rifiutava di unirsi ai fascisti di Salò e iniziava l’incubo della deportazione nei lager nazisti di Deblin, Witzendorf e Bergen-Belsen. Ricordo i suoi racconti, la sua rabbia quando si lasciavano anche solo due chicchi di riso nel piatto, la tenacia di uno sguardo che continuava anche a ottant’anni a guardare oltre i reticolati. Il suo “mai più” al nazifascismo nonno Vittorio, insieme alla quasi totalità degli internati militari italiani, lo mise in pratica pronunciando quel “no” di fronte al mitra del soldato nazista, e continuando nella memoria, nella testimonianza e nell’insegnamento. Vorrei che avessimo un centesimo del coraggio che ebbe quella generazione nel discernere e nel prendere la via più scomoda.

oh comunque oggi è San Tommaso Moro, il grande santo al quale insieme a Thomas Merton, devo la metà più nota del mio nome. Papà mi portava sempre una torta, se era fuori mi chiamava. Non nego che da piccolo spesso me ne dimenticavo. Ma in fondo non è molto più bello festeggiare il nome che ti ha dato chi ti ha voluto al mondo e atteso? E’ la prima spinta che ti viene data, la prima indicazione sulla strada, un augurio di bene, di buona rotta, di un buon cammino sotto stelle sicure. Dalle antiche nazioni Irochesi alle piste degli Aborigeni, dai monti di Canaan ai vicoli di Roma, c’è sempre un po’ di sogno, un po’ di passato, un po’ di Assoluto, nel nome che ti viene dato. C’è l’amore ricevuto e l’amore che saprai restituire, l’Amore che ti ha preceduto e quello che seguirà. Insomma per farla breve è il mio onomastico.

vorrei dire agli autori della scritta “ecco la tua stella, romanista ebreo” alcune cose. 1) Nazifascisti schifosi, lasciate la lazio ai tanti laziali veri (come tanti miei amici) e lasciate il calcio a chi lo ama. 2) per me Ebreo non è un insulto, anzi è un dato di fatto che anche coloro che popolano le tante parrocchie di Roma discendono dai padri Abramo, Isacco e Giacobbe, dalla grande antica e profondissima storia di un amato popolo fratello maggiore, dai canti, le danze, le cadute e le risalite del grande re Davide, e da una schiera di grandi uomini e profeti che quella stella richiama alla nostra memoria. 3) Non c’è nessuno che può vantare la propria romanità da tante generazioni quanto i nostri fratelli della comunità ebraica, quindi al limite sono loro che ci accolgono in una città dove siamo tutti nomadi, pellegrini, immigrati. Speriamo che sappiate adattarvi alla cultura e alle tradizioni della città che vi ospita, altrimenti “tornate da dove siete venuti”.

proprio oggi Don Pino Puglisi sarà proclamato beato. Il 15 settembre del 1993 fu freddato dalla Mafia nel giorno del suo compleanno, “colpevole” di aver costruito nel quartiere Brancaccio di Palermo un luogo che tentasse di dare un futuro migliore ai ragazzi altrimenti destinati alla povertà e alla criminalità. Il cristianesimo non è un’idea, è una persona, non si sventola come una bandiera ma si incontra nelle mani e negli occhi dell’altro, non nell’esaltazione dei proclami ma nel silenzio del servizio, non nell’ergersi per distinguere e imporre la propria individualità, ma nel saper offrire la propria diversità alla comunità, non nell’opportunismo e nell’arrivismo ma nel saper capire e accettare la propria missione, che è tale perché non si sceglie. Perché noi siamo qui “non per essere serviti ma per servire” e “chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato” e “se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti”. A chi crede, a chi non crede e a chi cerca, Beato Giuseppe Puglisi, infondi coraggio su questa strada certamente più scomoda, sterrata e in salita, ma l’unica davvero in grado di farci lasciare il mondo migliore di come lo abbiamo trovato.

Ci siamo. Ancora una volta in quest’anno destinato a rimanere nella nostra memoria a lungo, ci troviamo di fronte ad un appuntamento fondamentale, un po’ come quelle squadre di calcio che pur mancando le occasioni migliori per fare punti, si trovano alla vigilia di una nuova buona opportunità. Nelle proteste a cui stiamo assistendo c’è la nostra gente. Non si tratta di un’invasione esogena. A saltare questa volta è stato l’umore di chi ha montato i gazebo, di chi è stato seduto per ore a controfirmare certificati di elettori e tessere, di chi mette in piedi le feste democratiche. Quale deve essere la funzione del partito nella società contemporanea? Può limitarsi ad essere un franchising di individui che si mettono in mostra o può invece mirare a trasformarsi da una galassia di solitudini a una comunità che coopera, cresce e decide insieme? Una comunità non fallisce quando non raggiunge gli obiettivi prefissati, fallisce quando non ha più un rapporto di fiducia con il proprio leader e i propri dirigenti, quando non crede più nelle loro parole. Una comunità fallisce quando non esprime una visione in grado di ingaggiare e aggregare le persone. Occorre ripartire dalla visione, dai modelli politici e dai meccanismi di relazione con la militanza. Abbiamo bisogno di aria fresca, di una classe dirigente preparata, ma anche generosa ed umile, che sappia anteporre ai destini e alle ambizioni personali la sfida collettiva per il cambiamento del paese. Occorre uscire dal machiavellismo, dall’ipocrisia. Rifiutare il tatticismo ad oltranza e mettere in soffitta Risiko e  i soldatini, così da non avere paura delle proprie idee.  E fare chiarezza, a cominciare da quelle 101 persone che non hanno affossato solo Prodi, ma il Pd e le speranze dei suoi militanti ed elettori.  La cosa peggiore di questi mesi è stata la sensazione che il Pd non sapesse cosa fare, che il Pd non sapesse cosa volere. A prevalere era solo la paura. Ora, cosa fare? Occorre affrontare, una volta per tutte, i nodi irrisolti dal 94’ ad oggi. La governance non può essere più il meccanismo di alimentazione del potere e risorsa per i ceti politici, ma deve dare risposte ai territori, deve ridisegnare l’ingegneria dello Stato, introdurre sapere e merito, così da affrontare i nodi non risolti, da tangentopoli ad oggi.  Qual è l’orizzonte comune, come usciamo da questo isolamento? Tutti , o quasi, concordano sul fatto che il Paese debba dimagrire 20 chili, ma nessuno propone il “regime alimentare” con il quale si potrà mantenere in forma.  Il Pd può uscire dall’isolamento solo dicendo basta ai salotti. Vanno riorganizzate le forme di ascolto, i meccanismi di comunicazione che legano la base ai vertici, in questo la rivoluzione digitale può aiutare nella creazione di piattaforme d’ingaggio efficaci. Durante le scorse elezioni, questa crisi di ascolto ha dimostrato tutta la sua drammaticità, laddove ha coinciso, ad esempio, con la crisi del socialismo degli Appennini: le regioni dove abbiamo perso di più in termini di flussi sono state proprio quelle appenniniche, vedi l’Abruzzo, l’Emilia e le Marche. Ecco che tutta la nostra comunità deve rimboccarsi le maniche e lavorare ad una forma di partito leggera e funzionale, non più un approccio di garanzia delle burocrazie, ma una spinta propulsiva verso i processi virtuosi. Tra questi, vi deve essere sicuramente quello di generare sapere condiviso, un bagaglio di know-how che deve essere messo a disposizioni di tutti i territori, dal Piemonte alla Sicilia, e non deve rimanere nei cassetti delle sedi di partito. Attraverso un grande sforzo di umiltà, dobbiamo tutti metterci al servizio di un progetto nuovo, un progetto che sia capace di rinnovare ed essere competitivo. Il cammino non è facile, ma, certamente, tutto ciò rappresenta una sfida entusiasmante, l’unica sfida in grado di rendere tirar fuori il nostro Paese dalle paludi della crisi economica, sociale e culturale nel quale rischia sempre di più  di rimanere intrappolato.

Possiamo farcela, dobbiamo farcela.